In viaggio con Alain

Silvia e Alessandro sono andati a Gressoney per la tradizionale settimana madre-figlio e, così, il venerdì li ho raggiunti. Dato che non sono un ambientalista convinto, ma neppure reputo così apprezzabile muovere due auto per un fine settimana, come ogni anno, sono ricorso ai mezzi pubblici. Chi mi conosce bene, sa quanto io non ami treni/pullman.

Vado online per prendere un biglietto e scopro che per fare Milano – Point San Martin ci vogliono 2,20H con tanto di scambio a Chivasso.

Se i treni mi piacciono poco, i regionali sono i mezzi che sanno offrire l’esperienza peggiore. Altro che prima classe di Italo. Ero psicologicamente pronto. Eppure. Eppure non si è mai pronti.

Arrivo in stazione e, nel caos generale, in un mix di odori forti (purtroppo sono iperosmico), cerco un posto. Possibilmente appartato dato che non ho nessuna voglia di fare amicizie, ma solo di starmene tranquillo e leggere qualcosa. Nello specifico i testi di Padre Natale Brescianini sull’etica di impresa e sentire un po’ di musica. Visto che questo mio testo nasce dopo il racconto di Elkann, ammetto ab origine di essere uno di quelli con AirPods sempre in orecchio ed iPhone a portata. Quella sera, per crearmi la mia bolla, ho scelto Atlas di Roberto Cacciapaglia. Magnifico.

Di posti appartati, neanche a parlarne e quindi finisco nel tradizionale blocco da 4 salutando un sessantino dalla faccia stravolta. Educato e, soprattutto, come me, desideroso di relazioni sociali essenziali.

Metto le mie cuffie e inizio a leggere. Una ventina di minuti dopo, il mondo si impone e decide di entrarmi nelle orecchie. Alzo di una tacca il volume e riprendo a leggere. Niente da fare. C’è proprio una voce che non ne vuole sapere di stare al suo posto. Alzo gli occhi e vedo questa signora, settant’anni circa, meridionale, intenta a raccontare chissà cosa a tre anziani seduti dall’altro lato del vagone. I tre, nel frattempo, aprono una grossa borsa ed iniziano ad estrarne alimenti. In cinque minuti, nella generale incuranza della montagna di briciole che inizia ad invadere lo scomparto, compaiono panini alla mortadella, cotolette e bottiglie varie. Un controllore transita. Sì, transita, perché logica avrebbe voluto almeno chiedere di limitare la produzione di scorie, ma nulla. Niente di anomalo: era tutto normale.

Mi volgo verso sinistra e vedo altri tre compagni di viaggio. Uno, sudamericano, di quelli “divertenti”, con tatuaggi da gang latina finti seri, tipo “mamma ti amo” ed un ragazzo smilzo, nero con bandana bianca, cavallo bassissimo, intento a fissare una ragazzina seduta di fronte. Occhiate un po’ troppo esplicite, ma la giovane non mi pare così preoccupata o infastidita.

Alla seconda stazione sento il mio sedile vibrare. Dietro di me si deve essere seduto qualcuno. Qualcuno che deve avere davvero avuto una giornata faticosa, perché mi avvolge con un intenso odore di sudore, acre, pungente. Una delle cose che più mi fa saltare.

Sto per cambiare posto quando vedo arrivare una ragazza di una ventina di anni. Carina, composta, qualche dettaglio teneramente naif. Che bello quando vedi una personalità che si forma, matura e la rende unica rispetto al magma. Tra gli aspetti più immaturi, noto immediatamente un abuso di profumo. Di quelli floreali, un po’ dozzinali, ma molto estivo. In un lampo, vedo la soluzione a parte del mio problema. “Prego, vuoi sederti? Questo posto è libero. Ti aiuto a mettere lo zaino nella cappelliera.” La ragazza si accomoda, due convenevoli.

L’uomo stravolto nell’angolo nel frattempo deve essersi assopito, perché non dà segni di vita. Le gambe accavallate ed il calzino corto in cotone beige che inizia a cercare ostinatamente la caviglia appallottolandosi attorno al collo della tomaia della brogue impolverata.

La ragazza mi ringrazia per la “gentilezza dello zaino”. Gentilezza. Su quella parola mi sono sentito un verme. E mi succede raramente. Una ragazzina così carina che elogia l’atteggiamento di quel quarantenne (un vecchio!) che si alza e la accoglie. Ed io che mi sento intimamente uno schifo d’uomo, che in lei aveva visto solo un “arbre magique” capace di salvarmi dal feto dell’uomo senza volto seduto dietro di me. Fai schifo, Luca. Sappilo.

Sorrido come a dire “ma figurati!” (ipocrita!) e torno alle mie letture. Etica aziendale scritta da un religioso. Due volte ipocrita. Complimenti, Luca.

Stazione successiva. La ragazza si alza. Ma come, veramente te ne vai? Nel frattempo, i tre azionisti della magnesia Brioschi, che stavano ancora mangiando, inondano lo scomparto con odore di mortadella. Che magico mix: sudore e mortazza.

Il controllore transita ancora.

Mi sovviene allora una canzone di Van De Sfroos che recita “Set un autista pensa a guidà
Che’l cuntrulür l’è giamò drè a cuntrülà
”. Proprio. Il mio biglietto, come quello di tutti i presenti, non è mai uscito dal taschino della camicia. Niente di anomalo: è tutto normale.

Riprendo a leggere fino a Chivasso. Scendo. La stazione, come quasi tutte quelle italiane, colpisce per il degrado. I pilastri disadorni della pensilina sono totalmente scrostati. La pietra che li rivestiva se ne deve essere andata anni fa, declassata a breccia frammista alle traverse dei binari. Binari pieni di bicchieri di plastica, bottigliette e mozziconi.

In tutto questo, mi colpisce un pannello sul binario 1. Un’opera di Ugo Nespolo, ottimo artista che si deve essere lasciato coinvolgere in questa cosa sottovalutando il contesto. Sì, perché il bello, nel brutto, mette in evidenza il brutto, non il bello. In quel degrado generale, in quella generale stanchezza, quel Nespolo è un vero pugno nello stomaco.

Cerco un tabellone per capire da che binario sarebbe partita la mia coincidenza e scopro che ce ne è solo uno all’entrata della stazione. Fortunatamente ho solo un piccolo zaino. Sottopasso con discesa nell’Ade e risalita in analogo contesto. Binario 6, perfetto, torniamo dall’altra parte ed aspettiamo.

Treno valdostano. Puntuale e pulito come da attesa. Meno di 20 minuti ed arrivo a Pont Saint Martin dove mi attendono moglie e figlio. Mi tolgo le cuffie mentre un gruppetto di universitari lavora al computer chiacchierando in inglese per rispetto ad un amico apparentemente scandinavo. Scendo dal treno. Ecco Silvia e Ale. Finalmente sono a casa.

Questo racconto è un pretesto per riallacciarmi alla “lettera al direttore” di Alain Elkann. Tanto clamore per nulla.

Poteva evitarlo? Magari.

Ha scritto qualcosa di offensivo? Non mi pare.

Ha avuto un atteggiamento classista? Si.  Ma non parliamo di classe sociale, di censo, bensì di comportamento sociale, educazione e modi. Non fosse stato lui, probabilmente non ne staremmo -purtroppo- parlando, quantomeno in questi termini.

Se avesse preso un jet privato, sicuramente lo avremmo considerato spocchioso ed ambientalisticamente imbarazzante. Invece no. Ha preso un treno con la speranza di leggere tranquillamente quello che aveva scelto come compagnia. Lode a lui che può leggere Proust in lingua originale. Io non lo capisco già in italiano.

Il problema è un altro. Il suo racconto mette in evidenza quello che già tutti sotto sotto sappiamo, ovvero che siamo una Paese socialmente in degrado. Che distrugge tutte le convenzioni sociali, le sovrastrutture per essere più “diretto e leggero”. Ma non è vero. Non lo facciamo per quello, ma solo perché non siamo più in grado di gestire una comunicazione che superi la lunghezza di un tweet.

Perché non siamo più orientati al bello e spesso non sappiamo neanche capire che cafonata sia girare con delle ciabatte in plastica al mare con uno di quegli orridi finti panama in plastica. Cito l’esempio solo perché il tema non è saper distinguere a mano una buona palma toquilla, ma non riuscire neanche a capire che c’è un mondo intero in quella differenza a livello di storia, passione e cultura. Capire che girare sulla promenade con una camicia di lino bianco non è un minus neppure se hai l’addominale scolpito (chiedo venia: il six pack!).

Ci stiamo perdendo molto e lo stiamo facendo tutti. Anche quelli, come il sottoscritto, che ogni tanto si beccano dello “snob”. Sì, perché alla fine, su quel treno, io non mi sono comportato da uomo, non ho compiuto un atto di rispetto, ma ho cercato solo una soluzione al mio problema. Bella schifezza.

Adoro da sempre guardare le persone. I dettagli del loro muoversi, del vestire, le parole che scelgono ed il tono. Il nostro è un mondo bellissimo da indagare.

In questo senso, sia io che l’illustre dr Elkann abbiamo fatto però un grosso errore: abbiamo guardato tutti dalla bolla ma non abbiamo guardato nella bolla. Gli unici soggetti che non potremo mai chiudere fuori. Noi stessi.