Riprendo oggi una notizia che lascia a dir poco l’amaro in bocca. Molti di noi ricorderanno il grande naufragio del 18 Aprile 2015, quello del grande barcone/peschereccio, partito dalla Libia, che ha portato con sé centinaia di vite di immigrati, molti dei quali bambini e donne, al largo delle coste di Lampedusa.
Quella grande bara, simbolo più dell’indifferenza che della disperazione umana, fu recuperata dal fondale per volere dell’allora Premier Renzi. Scelta di cuore o di marketing, non lo so, ma condivisibilissima. Con l’occasione si recuperarono e ricomposero molti corpi dandone degna sepoltura.

Ebbene, quello scafo divenne un simbolo che, dopo mille traversie, fu esposta alla Biennale.
Oggi, quella barca è ferma sulla banchina veneziana tra mille contenziosi burocratici e legali. Nuovamente in balìa di se stessa, nuovamente dimenticata, nuovamente non voluta e, come 5 anni fa, per l’ennesima volta, tutti fingono di non vederla.
Sembrerebbe un vulnus alla natura umana, ma forse, a ben pensarci, rischia proprio di non esserlo, anzi, rischia di essere un po’ simbolo del nostro codardo moderno individualismo.
Eccovi l’articolo di Repubblica.
Repubblica 19.11.2020 – Articolo di Gianluca Di Feo
“E’ il monumento del dolore, l’atto di accusa sulla più grande tragedia contemporanea. Basta vederlo per comprendere il dramma: un guscio di metallo arrugginito su cui oltre mille persone hanno cercato di attraversare il Mediterraneo e invece hanno trovato la morte. Ma il relitto della strage, reso poi opera d’arte, adesso rischia di naufragare di nuovo, sommerso dalle onde spietate della burocrazia.
La storia è nota. Il 18 aprile 2015 un vecchio peschereccio salpato dalla Libia è affondato a circa duecento chilometri da Lampedusa. Il colpo di grazia al barcone stracarico è arrivato dall’impatto con un’enorme nave portacontainer, intervenuta per dare soccorso. Nessuno sa quanti fossero a bordo: mille o addirittura mille e duecento tra uomini, donne e bambini. L’unica certezza è che si sono salvati in 28. Tutti gli altri sono annegati.
Un anno dopo, per volontà del premier Matteo Renzi e della ministra della Difesa Roberta Pinotti, la Marina Militare ha recuperato il relitto dagli abissi. Con un’operazione senza precedenti, è stato tirato fuori dal mare e trasportato nella base navale di Augusta: tutti i corpi ancora imprigionati nelle stive sono stati ricomposti, cercando di ricostruire tramite dna e oggetti l’identità delle vittime. In quei 27 metri di lamiera erano imprigionati in almeno seicento, ma dagli esami si è avuta la certezza che le persone a bordo fossero molte di più. Un terzo erano giovanissimi: tra loro c’era un ragazzo di 14 anni, partito dal Mali, che si era fatto cucire la pagella negli abiti.
La presidenza del Consiglio ha parlato di «responsabilità verso la Storia». E’ stato ipotizzato di trasferire il barcone a Milano ed esporlo in piazza Duomo. Oppure portarlo a Bruxelles e metterlo davanti alla sede del Parlamento europeo, come un monito per obbligare ad aprire gli occhi sulla strage degli innocenti. Ma nel giro di pochi mesi i buoni propositi si sono dissolti, con il relitto abbandonato nell’installazione militare e destinato alla demolizione.
C’è però chi non si è arreso. Il “Comitato 18 aprile” ha fatto quadrato intorno allo scafo, difendendolo dalla rottamazione. Ed è riuscito a concretizzare un piccolo miracolo. L’artista svizzero Christoph Buchel ha raccolto i fondi per trasferire il relitto e presentarlo alla Biennale di Venezia con un progetto chiamato “Barca Nostra”. Il Comitato e la curatrice Maria Chiara Di Trapani hanno abbattuto gli ostacoli amministrativi: Palazzo Chigi, attraverso il ministero della Difesa, ha affidato il barcone al Comune di Augusta. Che a sua volta l’ha ceduto in comodato d’uso per un anno a Buchel. A quel punto il viaggio è cominciato: sopra un pontone trainato da un rimorchiatore, lo scafo del peschereccio ha attraversato Ionio ed Adriatico fino a Venezia. Ogni fase è stata ripresa dalle telecamere di una video-iniziativa italo-tedesca prodotta da Wim Wenders, con la regia di Luca Lucchesi, per intrecciare in un documentario le sorti del barcone con quelle dei sopravvissuti al disastro.
Alla Biennale ha avuto il titolo di “May you live in interesting times” (“Possa tu vivere in tempi interessanti”): la scelta provocatoria di un’opera di “denuncia istituzionale”, come molti altri degli allestimenti di Buchel. Tutto il mondo ne ha parlato. Ma chiusa la rassegna artistica, è iniziata un’altra odissea. Perché nessuno ha portato via il barcone.
Prima è partito un contenzioso giudiziario tra Buchel e la società incaricata del trasferimento, accusata di avere danneggiato la sella costruita per l’opera. Poi il lungo lockdown di primavera per il Covid. La Biennale ha ordinato di liberare la banchina; l’artista ha replicato chiedendo di usare la copertura assicurativa che in genere tutela le opere esposte. Ma un’altra contestazione legale non lo permette. Così l’istituzione veneziana si è rivolta al Tribunale, che ha disposto un accertamento tecnico. E ora minaccia di fare causa al Comune di Augusta, formalmente “affidatario” del relitto, che non ha certo i fondi per gestire il trasloco.
Un barcone senza patria, rifiutato da tutti: un terribile replay di quanto accaduto nella primavera del 2015, quando i migranti furono lasciati senza aiuti in mezzo al mare nel rimpallo di responsabilità tra governi europei.
La curatrice e il “Comitato 18 aprile” da oltre un anno lavorano per una soluzione alternativa: aprire ad Augusta un Giardino della Memoria e un Museo diffuso dei diritti umani. Sono disposti a collaborare al progetto la Columbia University e il Cir-Migrare dell’Università di Palermo. L’Università di Milano è pronta a partecipare con il Labanof, il laboratorio di antropologia forense diretto da Cristina Cattaneo che si è impegnato per dare un’identità alle vittime. «Il barcone rappresenta cosa succedeva dietro l’angolo di quell’Europa e dei rispettivi parlamenti, che si dichiarano i più civili, democratici e liberali», ha dichiarato Cattaneo: «Adolescenti e giovani morti, stipati su imbarcazioni che nulla hanno di diverso dalle antiche navi negriere, per scappare dalla guerra, dalla persecuzione o dalla fame».
Gli ostacoli economici e burocratici oggi appaiono insormontabili. E c’è bisogno di risposte urgenti, prima che la controversia legale finisca per paralizzare per sempre il barcone, sommergendo con un’onda di carte bollate la testimonianza più impressionante della tragedia che prosegue ogni giorno davanti alle nostre coste. O, peggio ancora, ne disponga lo spostamento in un deposito di ferri vecchi: l’ultimo oltraggio alla memoria della moltitudine che ha trovato la morte in quella stiva.”